lunedì 5 novembre 2012

Legami d'amore



Come ho già fatto in altre due occasioni su questo blog, mi prendo un piccolo spazio per parlare di altro.
Di un libro… Legami d’amore di Maria Rosa Nuvoletta.
In questo spazio parlo spesso di sogni e del sogno di Sigismondo.
Un sogno da ritrovare. Da afferrare. Ma anche del vivere di sogni, del non abbandonarli
 perché mantengono la fiamma ardente nelle nostre anime.
Non ho mai parlato di sogni infranti. Di quelli lasciati in un cassetto. Di quelli dimenticati perché dolorosi. 
Di quelli che hanno smesso di volare perché le ali e il respiro delle persone 
che li portavano in alto hanno smesso di esistere.
Legami d’amore è la storia di due fratelli, Barbara e Vito, 
di un legame che supera ogni barriera e che rimane sempre lì, 
vivo e pulsante, fino alla fine e oltre la morte.  
Barbara e Vito sono figli di un boss della camorra.
Due figli in bilico tra il bene e il male, costretti a vivere una vita distante da loro,
 costretti tra l’amore e il dolore, diventati altro… 
Vedranno allontanarsi i loro sogni senza poter far nulla per fermarli… soli con un destino segnato…
Questo è uno dei passaggi che più mi ha toccata… 

***

Quanto male, sorella mia. Che freddo, che gelo.
Che c’entriamo tu e io con questa gente?
Che sangue è questo che ci scorre nelle vene?
Cosa ci facciamo noi qui?
Rinnegare, restare, scappare, pregare, bestemmiare?
Come faccio a vivere con questa cosa dentro?
Come faccio a respirare, a guardare il mare, a sentire
gli odori senza avvertire il fetore, a mangiare senza
provare disgusto, ad amare senza detestare, a parlare
senza ammutolire come Sonia, a camminare senza
indugiare, a sorridere senza lasciar scorrere il pianto?
Come si riscatta tutto questo?
Di chi siamo figli, di cosa siamo fatti?
Come faremo a continuare a essere diversi da loro,
portando lo stesso nome e lo stesso terribile destino?
Come farò a non odiare me stesso per non avere il coraggio?
Come farò ad amare Andrea senza sentirmi complice
del Male, a esserti fratello senza averti protetta, a
essere figlio senza maledire tutta la mia stirpe?
Ti lascio sola ad affrontare ciò che non sai. Ti lascio a
comprendere l’incomprensibile. A vivere nel terrore.
Ti lascio in guerra, in tempo di pace.
‘Sono finite le ore.’ E’ la frase che ripetevi quella notte,
nel delirio, mentre ti accarezzavo. Ci penso sempre.
Don Armando Cortese, nostro padre, mi manda via.
Un uomo d’onore non può reggere la vergogna di un
figlio omosessuale e pure coniglio. Il figlio di Cortese
deve essere un uomo, fedele alla legge dell’omertà.
Non essendo né l’uno né l’altro è necessario che sparisca,
che mi nasconda, e che sia riconoscente per aver
avuto salva la vita grazie al privilegio di essergli figlio.
Così mi allontana in cambio della vita.
La mia vita, ma anche quella di Andrea.
Sogghigna il Male, mentre gioca con i destini come
fossero birilli da far cadere in un sol colpo sul tavolo
da biliardo.
Scommette. Vince.
Vincono, sorella mia, non c’è gioco. Bisogna ritirarsi.
Ma esiste un luogo in cui i vinti hanno dignità? C’è un
posto nel quale si possa sfuggire al proprio disgusto?
Il mondo per noi è diviso in due: quelli che ci lusingano
e quelli che ci schifano, ma per entrambi siamo
solo un cognome.
Tutto accade nostro malgrado: la diffidenza, il cinismo,
la mancanza di speranza, la fine di ogni sogno,
la caduta degli ideali, la solitudine, l’essere orfani per
una guerra maligna.
Dov’è finito l’amore di Massimo? Dove finirà l’amore
di Andrea?
E il nostro amore, dove andrà a finire?
Nel rimpianto di ciò che poteva accadere e non è mai
successo.
E’ un luogo stretto questo, dove si soffoca. Dove nessuno
ti riconosce perché diventi altro da te stesso.
C’è stato un tempo in cui ci siamo ritrovati in mezzo
al fango, a condividere l’impegno civile, a proteggere
la storia di una città, a mangiare pane e mortadella
nelle cuccette di un treno fermo trasformato in
ostello. Eravamo sporchi di sporcizia pulita.
C’era un tempo in cui eravamo fieri di chiamarci Cortese
perché quel nome firmava biancheria fatta a mano
e pagava onestamente il nostro pane.
L’unica cosa che lega quel tempo a questo è il bene che
ti voglio, un bene silenzioso, attento, discreto, che fa vicina
la lontananza, che rende certi nell’indecisione, che
sa senza parlare tanto.
Forse non sono riuscito ad amare nessuna donna
perché non reggeva il confronto con l’amore che ho per te.

                                                                                Vito

Nessun commento:

Posta un commento